Fine di un eclissi

Dopo un turno di lavoro notturno, camminare per circa 5 chilometri, per tornare a casa, con l’unico scopo di provare a passare veniquattro ore senza consumare. Senza utilizzare l’auto. Senza accendere la luce. Senza comprare niente. Perchè? Per misurarsi. Per cercare di capire come viviamo, cosa possediamo realmente, cosa invece ci possiede. Può servire. Almeno a me è servito. Quando ho promosso su Facebook questo evento, la giornata a consumo 0, pensavo di poter suggerire a qualcuno una semplice occasione per riflettere. Non credevo che avrei suscitato cosi tante polemiche e altrettante superficiali ilarità. Ma non voglio parlare di questo. Voglio parlare di me, una volta tanto.

Sono uscito dal Centro Stampa alle 4:25 del mattino. La zona industriale ha un fascino unico. Capannoni con i vetri rotti, fatiscenti muri , auto ferme, asfalto bucato dai tir, lampioni intermittenti, e forme rotonde dei tetti. Fruscio di auto non troppo lontane ne sufficientemente vicine, stradine strette e buie, marciapiedi smussati e impraticabili. Mi viene subito da pensare che non è un posto adatto all’uomo. Non c’è niente di umano, o forse è tutto cosi dannatamente umano che non è possibile viverci. Tutto costruito, tutto artificiale, anche i rari arbusti rinsecchiti e le siepi di lattine e scarti di avventure. Tuttavia provo un certo piacere a camminare li in mezzo; mi sento cosi un prodotto d’elite, un privilegiato rispetto a quelle informi strutture. Chissà come ci si sente ad essere una vecchia fabbrica. Pensieri che sfuggono.

Adiacente alla zona industriale, e passato sotto il ponte dell’autostrada, si arriva in una zona semiresidenziale. Passano tre o quattro motorini che si fermano poche centinaia di metri più in la. Ragazze e ragazzi di ritorno da una serata fuori. Si riuniscono in gruppetto, gli uni vicini agli altri, e gridano. Gridano tra di se, decidendo cosa fare di quello scampolo di nottata. Che poi trall’altro li tradisce, poichè un filo di luce appare a evidenziare le vette delle colline. Mi chiedo se il loro gridare è solo loro. O se è un tentativo di condividere con chi li può sentire ( chi??) i loro programmi. O magari sono solo ancora un pò frastornati dalla musica ad alto volume che hanno sopportato tutta la notte. Non voglio fare il vecchio, tuttavia non ricordo di aver mai urlato cosi, neanche quando tornavo a casa con il cervello che friggeva per le casse a volume spaventoso dei locali. E’ una domanda a cui non ho risposta.

Adesso le colline sono alle mie spalle. Cammino in mezzo alle case. Palazzi di quattro piani, palazzi di cinque.Palazzine più basse. Scopro cosi che la percezione dell’arsura estiva dipende dal piano in cui si abita. Chi abita più in basso del terzo piano, tiene le finestre chiuse. Gli avvolgibili bassi. Le persiane serrate. Chi invece abita ai piani alti, dorme con le terrazze aperte al mondo, con le finestre spalancate. Che tristezza. Schiavi dell’insicurezza.

Adesso la strada è vuota. Totalmente. Nessun rumore. Le attività commerciali non sono solo chiuse, non esistono. Esistono i miei passi, che suonano della moneta da un euro e del mazzo delle mie chiavi in tasca. Tintennio irregolare. E poi ci sono le luci. Luci affievolite dal chiarore del giorno che nasce. Che percepisco, adesso. Non è la vista il senso che mi stupisce. Sembrerebbe strano, di fronte ad un alba estiva. E neanche l’udito o l ‘ olfatto ( si sente solo puzza dei rifiuti lungo il cammino). Ma il tatto. Percepisco il giorno che nascce sulla mia pelle. Come la fine di un eclissi . Mi ricordo di tanti anni fa, a Follonica. Ore calde di una giornata estiva, eclissi totale. Ci organizzammo con occhialetti appositi e ci preparammo tutti all’evento, che mi colse impreparato. Quando il sole fu coperto dalla luna, mentre tutti guardavano su, io tolsi gli occhiali e mi guardai le braccia, sulle quali brividi di gelo si rincorrevano. Non era freddo, restava pur sempre una giornata estiva. Era gelo. Un gelo quasi interiore. Adesso vivo un emozione esattamente contraria. Sulla mia pelle brividi del calore del sole che vince il profilo delle colline e ci regala una altro giorno. Mi da felicità, lo ammetto. Non avrei mai provato una cosa simile se fossi stato dentro la mia auto. Per la verità adesso starei già preparandomi per dormire. Invece sono fuori, guardo intorno a me la vita che sboccia, ascolto suoni silenziosi , ovattati e a volte irrispettosi , e percepisco il calore del sole che appare, uguale a ieri, eppure cosi nuovo.

La strada per casa adesso mi appare troppo breve. Eppure sono stanco, molto stanco. Negli ultimi due giorni non ho praticamente dormito, cosi preso dal viaggio verso i Campi dei terremotati in Emilia. Sono spossato in effetti. Ma via via che mi avvicino a casa, vorrei quasi che si allontanasse un pò, per darmi il tempo di pensare ancora.

Penso a quanta confusione noi facciamo ogni giorno. Confusione linguistica e di contenuto. Abbiamo stabilito un uguaglianza irreale tra ciò che è necessario e ciò che è comodo. Non sappiamo più scindere le due cose. Eppure dovremmo. Non che io voglia una vita scomoda, ne una vita senza tecnologia, sia chiaro. Vorrei solo una vita in cui queste due cose vengano dopo. Dopo ciò che è davvero necessario per tutti. Cibo, acqua e libertà. Come disse una volta un uomo politico che mi piaceva molto : pane salame e fantasia. Noi siamo pane, salame e fantasia. Vorrei ci rendessimo conto che possedere un auto è comodo, ma non necessario. Vorrei che sapessimo che avere un telefono è comodo, non necessario. E tanto meno sono necessari vestiti alla moda, televisore ( quasi nocivo), vacanze, gioielli, computers…Comprendere il concetto di necessario ci aiuterebbe molto. E comprendere quanto è più importante essere che avere. Questo vorrei.

Entrare a casa senza accendere le luci, alzare gli avvolgibili per avere la luce necessaria per accendere le candele. Avvicinarsi al balcone, uscire nel calore del mattino nuovo, e pensare tra me e me: buongiorno a tutti.